Il barone a luci rosse
Nel febbraio 2002 scoppia il caso del professore a luci rosse dell’Università di Camerino. E.C. è indagato per concussione, corruzione e peculato. E’ accusato di aver indotto diverse studentesse a concedergli favori sessuali in cambio di facilitazioni agli esami. Dei fatti esiste addirittura ampia documentazione filmica, girata dallo stesso professore nel suo ufficio e all’insaputa delle studentesse.
Tutti gli organi di informazione danno ampio risalto alla vicenda riportando ogni particolare, insieme ai nomi propri delle studentesse protagoniste dei video. In particolare, “Il Corriere Adriatico” del 9 febbraio 2002 e “L’Espresso” del 14 febbraio 2002 pubblicano alcuni fotogrammi tratti dai video e finiti – non si sa bene come – nelle mani degli inquirenti. I fotogrammi mostrano il professore con diverse studentesse in pose inequivocabili. Il professore è mostrato integralmente, mentre sui volti delle studentesse viene apposto un cerchio nero che impedisce la visione di gran parte del viso, ma non dei capelli, tantomeno dei vestiti e della biancheria intima.
Sulla questione interviene d’ufficio il Garante per la Protezione dei Dati Personali. Ricorda che il trattamento dei dati personali a fini giornalistici va effettuato “nei limiti dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, nonché nel rispetto della dignità e del decoro delle persone”; e richiama gli organi di informazione ad “un più attento vaglio circa la liceità della pubblicazione delle immagini del docente durante i suoi incontri con le studentesse”, vaglio che a maggior ragione si imponeva nei riguardi delle ragazze “in considerazione del rischio che, attraverso la diffusione delle immagini e delle altre informazioni pubblicate, potessero risultare identificabili […] nonostante la cautela di coprire loro il viso”.
Il Garante conclude segnalando “all’editore e al direttore responsabile del settimanale L’Espresso e del quotidiano Il Corriere Adriatico la necessità di conformare i trattamenti di dati personali ai principi richiamati nel presente provvedimento astenendosi da ulteriori trattamenti in difformità dai medesimi principi”.
Il caso in questione presenta aspetti interessanti per la contemporanea presenza, all’interno della notizia, di soggetti destinatari di una tutela differenziata in tema di trattamento di dati personali: il “carnefice” e la “vittima”. E, nei confronti di quest’ultima, come impone l’art. 8 del codice di deontologia dei giornalisti, il diritto di cronaca va esercitato tenendo nel massimo conto riservatezza e dignità.
Una doverosa precisazione. Il ruolo di “vittima” assunto dalle ragazze deriva dalla contestazione al professore, per la maggior parte dei rapporti, del reato di concussione (sessuale). In questo reato è vittima chi è costretto, suo malgrado, ad una prestazione per via del suo assoggettamento a chi incarna un potere pubblico. Si parla invece di corruzione quando l’assoggettamento è escluso, essendoci un accordo tra funzionario pubblico e terzo, che accetta per libera scelta e, soprattutto, per tornaconto personale, tant’è che soggiace alla stessa pena prevista per il corrotto. Per cui, solo nel reato di concussione ha senso parlare di “vittima”.
La diversità di struttura che presentano i due reati incide sulla applicazione della normativa sulla privacy. Nel caso della concussione, alle studentesse, in quanto vittime, andrebbe garantita la massima tutela. La corruzione, invece, le porrebbe sullo stesso piano del professore.
Entrando nel merito, è certamente di interesse pubblico il comportamento del docente di una università che impone, o semplicemente offre, alle proprie studentesse questo tipo di “dazio” per il superamento del suo esame, data la rilevanza pubblica della sua funzione, soprattutto se il comportamento è sistematico. E’ appena il caso di far notare che qui l’uso di strumenti di ripresa visiva per carpire le immagini non realizza il reato di cui all’art. 615 bis del codice penale, poiché questo reato presuppone che le immagini siano attinte da un domicilio o da un luogo di privata dimora. Ossia, un luogo concettualmente opposto a quello, destinato all’esercizio di una funzione pubblica, dove il professore organizzava gli incontri.
Tuttavia, è indubbio che la pubblicizzazione del caso ha messo “a nudo” (in tutti i sensi) l’aspetto più intimo dei protagonisti, quello che nel codice di deontologia dei giornalisti riceve la tutela più intensa: la sfera sessuale.
Ma è la stessa componente sessuale a connotare fortemente i reati contestati. E’ proprio in quelle immagini che si sostanzia il comportamento illecito del professore. Quelle immagini coincidono con la notizia. Non si può dubitare che qui, per dirla con l’art. 6 del codice di deontologia, “l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti”. Ossia, ricorrono tutti gli estremi della “essenzialità dell’informazione”, nonché i presupposti perché quegli aspetti della sfera sessuale del professore, la cui rilevanza pubblica è indubbia, possano essere legittimamente divulgati.
Il vero problema riguarda le studentesse. A differenza del professore, la loro rilevanza pubblica è nulla. Ma è evidente il loro collegamento con un fatto di interesse pubblico. Qui la loro posizione nei riguardi della normativa sulla privacy dipende dal ruolo assunto nella vicenda.
Se il reato contestato al professore è la concussione (sessuale), allora le studentesse vanno considerate alla stregua di “vittime”. Scatterebbe così la tutela prevista dall’art. 8, comma 1°, del codice di deontologia, che va interpretato nel senso di consentire al giornalista la diffusione delle immagini della “vittima” solo nel suo esclusivo interesse.
Al contrario, qui le immagini delle ragazze sono state diffuse a loro danno. Infatti, le precauzioni adottate dai due quotidiani (il cerchietto nero sul viso) si sono rivelate inadeguate. Nella cerchia delle loro conoscenze (che è poi la cerchia che conta, essendo soggetti a rilevanza pubblica nulla), le ragazze sono risultate riconoscibilissime, essendo ben visibili colore e taglio dei capelli, vestiario e biancheria intima. Per giunta, anche se non i cognomi, i quotidiani hanno indicato i nomi propri delle ragazze, anziché nomi di fantasia. Non a caso è soprattutto su questo aspetto che si sono concentrate le giuste critiche del Garante.
Se invece il reato è la corruzione (sessuale), allora, in teoria, le ragazze andrebbero non più considerate quali “vittime”, ma poste sullo stesso piano del professore, data la struttura di quel reato. Tuttavia, a suggerire una soluzione più favorevole per le ragazze è l’indubbia circostanza che qui il reale interesse pubblico alla notizia si concentra sul comportamento del professore. Il pubblico è (e deve essere) interessato in misura maggiore a chi fa un uso personale della funzione pubblica, rispetto al privato che se ne avvantaggia. Basti pensare ai grandi scandali, dove sono sempre i comportamenti dei politici, molti dei quali titolari di funzioni pubbliche, a finire al centro della scena. E ad un minor interesse pubblico corrisponde una maggiore riservatezza, quindi una più intensa tutela di quei dati la cui diffusione ne provoca la lesione, soprattutto quando si parla (come in questo caso) di dati “supersensibili”.