LA DIFFUSIONE DI IMMAGINI E GENERALITA'
Come si è avuto modo di spiegare in il diritto alla riservatezza, generalmente l’interesse pubblico alla conoscenza di un fatto è dato dalla sua gravità o eccezionalità. E’ l’importanza del fatto in sé, nella sua componente oggettiva, a legittimarne l’apprensione da parte del pubblico, quindi la diffusione.
Ma dietro ogni fatto c’è sempre un protagonista, con le sue generalità e i suoi tratti somatici, che costituiscono dati personali. Ebbene, nei casi in cui la narrazione del fatto in sé soddisfi un reale interesse pubblico, va appurato se le generalità e l’immagine dei protagonisti siano inscindibilmente collegati al fatto stesso, tanto da poter ricondurne la diffusione a ipotesi di trattamento consentito di dati personali. Oppure, ragioni di tutela della persona ne impongono il blocco, in deroga al principio di completezza della notizia.
Certamente quella della pubblicazione dell’immagine è l’ipotesi a più alto rischio di lesività. Norma centrale per la soluzione del problema è l’art. 8 del codice di deontologia dei giornalisti. Intitolata alla “Tutela della dignità della persona”, la norma, divisa in tre commi, riporta i casi in cui è vietato pubblicare immagini di persone, seguendo un ordine crescente di lesività.
Cominciando dal 3° comma, nessuno può essere presentato “con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi”. Sull’opportunità di questa disposizione (che ripropone il contenuto dell’art. 114, comma 6 bis, del codice di procedura penale) non possono esservi dubbi. Una tale rappresentazione porta il pubblico ad una istintiva equiparazione della persona ad un animale. Una crudeltà comunque gratuita, a prescindere dalla colpa commessa. Qui il divieto è assoluto. Nemmeno il consenso dell’interessato legittimerebbe la diffusione. E il fatto che la norma preveda un’eccezione solo quando si debba documentare un abuso, dimostra che è sempre il fine di tutela della dignità della persona a prevalere.
Il 2° comma vieta la diffusione di “immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell’interessato”, salvo che “per rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia”. Qui il consenso della persona legittima sempre la pubblicazione. Ma si pone il problema di interpretare le eccezioni alla regola, che operano in mancanza di consenso. Tra l’altro, va considerato che la diffusione delle immagini dell’arrestato implica necessariamente la diffusione di un dato giudiziario, la cui disciplina è sostanzialmente analoga a quella dei dati sensibili. Quindi, serve un’interpretazione che escluda la possibilità che la pubblicazione delle fotografie dell’arrestato possano fungere da “gogna mediatica” o da “pena accessoria”.
Dei “fini di giustizia e di polizia” parla già l’art. 97, comma 1°, L. n. 633/1941 (“legge sul diritto d’autore”), secondo cui “non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell’immagine è giustificata […] da necessità di giustizia o di polizia […]”. Una giusta interpretazione dovrebbe ritenere lecita la pubblicazione dell’immagine dell’arrestato quando ciò può rivelarsi utile al lavoro investigativo. E’ il caso dei reati a lesività diffusa. Chi riconoscesse nella foto il funzionario concussore, lo stupratore incallito, lo sfruttatore di prostitute, il truffatore professionista, potrebbe rivelare agli inquirenti dettagli utili alla completezza dell’indagine o reclamare giustizia. In pratica, l’elemento caratterizzante la fattispecie è il rapporto sostanziale che può essersi precedentemente creato tra l’arrestato e un numero indeterminato di persone. Su questo punto, un’utile indicazione può essere la circostanza che gli inquirenti abbiano distribuito foto segnaletiche ai giornalisti nel corso della conferenza stampa appositamente indetta.
Qualche dubbio lasciano i “rilevanti motivi di interesse pubblico”. Certamente è il caso della diffusione dell’immagine di chi è evaso dal carcere, o ha commesso un grave reato ed è ricercato dalla polizia, soprattutto in un’ottica di tutela della collettività. Per il resto, se i rilevanti motivi di interesse pubblico vanno logicamente disgiunti dai “fini di giustizia e di polizia”, viene spontaneo pensare a casi eclatanti, come gli omicidi; anche se non è facile scorgere un reale interesse della collettività nel conoscere le fattezze fisiche di chi, ad esempio, ha sterminato la famiglia o ammazzato un bambino. I “rilevanti motivi di interesse pubblico” potrebbero così derivare dal “rilevante” allarme sociale che il fatto in sé provoca. Tra l’altro, in simili casi non sembrano esserci particolari “controindicazioni”: la lunga pena detentiva che l’interessato si trova a dover espiare esclude che la diffusione della sua immagine, nell’immediatezza del fatto, possa nuocergli, né pregiudicargli il futuro reinserimento sociale. Qui, in mancanza di specifiche disposizioni legislative, la deroga al principio di completezza della notizia non sarebbe giustificata.
Più complessa l’ipotesi del 1° comma, secondo cui “Salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine”. Su un punto non si discute. A differenza delle ipotesi precedenti, dove l’interessato è il soggetto attivamente implicato, questa norma vuole tutelare chi, suo malgrado, si trova coinvolto in un fatto di cronaca.
Coinvolto, innanzitutto, come vittima. Va garantita la massima riservatezza a chi non desidera apparire dopo aver subito un pregiudizio tale da provocare l’attenzione del pubblico. Un esempio è quello fornito dall’art. 734 bis del codice penale, che punisce con l’arresto da tre a sei mesi chi diffonde le generalità o l’immagine di una vittima di reati a sfondo sessuale senza il suo consenso. Nella stessa ottica, sarebbe illegittimo pubblicare l’immagine di una donna che ha subìto per anni i maltrattamenti del marito, o della ragazza che è stata sfruttata sessualmente, senza il loro consenso. In questi casi, la divulgazione dell’immagine, oltre a rivelarsi traumatizzante per la vittima, renderebbe più difficile il suo recupero, dovendo a lungo convivere con il timore di essere riconosciuta.
Ma, in generale, la tutela è estesa a tutti coloro il cui collegamento con il fatto o il suo protagonista è casuale. Basti pensare ai parenti, ai vicini di casa, ai colleghi di lavoro: soggetti per i quali la diffusione della propria immagine, in relazione a quel fatto, potrebbe in certi casi rivelarsi dannosa, o semplicemente molto imbarazzante, in assenza di qualsiasi utilità sociale.
Allo stesso modo, è illegittima la diffusione dell’immagine di un soggetto, quando rivelerebbe al pubblico la sua condizione disperata: è il caso di chi tenta il suicidio con il gas, facendo poi saltare l’intero stabile. Oppure quando consegnerebbe il soggetto al pubblico ludibrio: è il caso di chi viene ricoverato in ospedale in conseguenza di pratiche erotiche estreme, o della signora che procura involontariamente un infarto al marito dopo avergli servito una bevanda con disciolta una dose eccessiva di “Viagra”. Fatti la cui eccezionalità ne legittima la divulgazione, ma nel rispetto dell’anonimato (ossia della dignità) degli interessati.
Per quanto riguarda la deroga prevista nell’ultima parte del 1° comma (“a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine”), è scontato che il giornalista può pubblicare una notizia socialmente rilevante. Di conseguenza, è corretto interpretare la deroga nel senso di ritenere pubblicabili dettagli irrinunciabili per una chiara ricostruzione del fatto, secondo il principio di completezza della notizia. Resta fermo il divieto di diffusione dell’immagine, che potrà essere pubblicata soltanto se ciò si riveli indispensabile per la tutela dell’interessato. In quest’ottica, sarà pubblicabile l’immagine di una persona misteriosamente scomparsa, quando vi sono seri motivi per temere per la sua incolumità: sono, ad esempio, i casi di cui si occupa la trasmissione Rai “Chi l’ha visto”.
Da quanto detto, si può notare la notevole diversità di trattamento tra carnefice e vittima. In generale, l’immagine del primo può essere dal giornalista utilizzata, oltre che nei casi più eclatanti, ogni volta che la sua diffusione possa avvenire nell’interesse di altre persone. Invece, l’immagine della “vittima” può essere pubblicata soltanto nel suo esclusivo interesse, quando questo sia prevalente sull’esigenza di tutela della sua dignità.
L’art. 8 del codice di deontologia affronta la questione della pubblicazione delle immagini, ma non quella delle generalità, pur costituendo anch’esse dati personali. Il motivo è semplice. La diffusione dell’immagine reca in sé una maggiore lesività, anche perché è sempre accompagnata dalla diffusione delle stesse generalità. Ma non vi sono motivi per differenziare nettamente le due ipotesi. Per la diffusione delle sole generalità valgono i principi generali del diritto di cronaca, che ne legittimano la diffusione nel rispetto della “essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico” (art. 137, comma 3°, codice della privacy). Quindi, si dovrà sempre prestare maggiore attenzione alla riservatezza di chi, suo malgrado, si trova coinvolto perché vittima o casualmente collegato al protagonista. A maggior ragione quando la pubblicità del fatto svela la condizione disperata di un soggetto (come nei tentativi di suicidio). Invece, di fronte a fatti gravi e di indubbio interesse pubblico, l’arrestato non potrà mai invocare, per le proprie generalità, le cautele che l’art. 8, comma 2°, del codice di deontologia prevede per la sua immagine.
Spesso, quando manca un interesse pubblico alla conoscenza delle generalità di un soggetto, si omettono le generalità, fornendo però elementi che ne permettono ugualmente l’identificazione. Ad esempio, si pubblicano le iniziali insieme ad età, luogo di residenza, professione, etc. Si potrebbe dire che in casi simili vi è ugualmente una violazione della legge sulla privacy. Il soggetto, infatti, viene qui identificato “anche indirettamente mediante riferimento a qualsiasi altra informazione”, come si esprime l’art. 4, comma 1° lett. b) del codice della privacy per definire la nozione di “dato personale”. In definitiva, vi è una operazione che conduce proprio a quel risultato che la tutela offerta dal codice della privacy vuole scongiurare.
Ma la violazione è solo apparente. Bisogna infatti valutare chi in casi simili è in grado di identificare il soggetto. Ebbene, l’identificazione sarà possibile per chi lo conosce personalmente o è inserito in un contesto ambientale di ridotte dimensioni (si pensi alle località che contano poche migliaia di abitanti). Ossia, quella cerchia di persone che arriverebbe alla identificazione comunque, anche in assenza di una iniziativa giornalistica. Al di fuori di quella cerchia, l’identificazione sarebbe quantomeno ardua. Di conseguenza, in casi simili non potrebbe parlarsi di “diffusione” di dati personali.
Infine, la questione generale della diffusione di dati personali si pone in termini assai diversi quando protagonista della vicenda è un personaggio pubblico. Qui a giocare un ruolo fondamentale è la presenza del nesso che lega il personaggio alla collettività. Qualsiasi fatto in sé rilevante, oppure privato ma incidente su quel nesso, acquisisce importanza soprattutto (o soltanto) per essere a lui riferito. In questo caso, se non venissero diffusi i dati personali, si priverebbe la collettività di un’informazione fondamentale nel suo rapporto col personaggio pubblico, che va sempre rappresentato in termini veritieri. Essendo il fatto rilevante soprattutto (o solamente) per essere riferito al personaggio pubblico, in questo caso la mancata diffusione dei dati personali equivarrebbe ad un occultamento della notizia.
Inoltre, nel caso del personaggio pubblico non avrebbe senso invocare la tutela prevista dall’art. 8, comma 2°, codice di deontologia, che in generale vieta la diffusione dell’immagine di chi si trova in stato di detenzione. In quanto noto, il personaggio pubblico non può vantare alcun diritto all’immagine. L’unica tutela che potrebbe invocare è quella di cui al 3° comma, se venisse ripreso con le manette ai polsi.
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