Un errato censimento di polizia
Su un quotidiano della Sicilia appare un articolo che riporta un censimento condotto dalla Polizia di Stato, basato sulle denunce e le condanne per associazione di tipo mafioso registrate in nell’ambito della medesima provincia. L’articolo è corredato di una mappa indicante i nomi dei capofamiglia delle organizzazioni e degli aderenti di spicco. Fra questi, P.P.
P.P. cita in giudizio articolista e direttore. Sostiene che l’articolo è diffamatorio, in quanto gli attribuisce falsamente la partecipazione ad una associazione di tipo mafioso. Ammette che nel periodo cui il censimento si riferisce era sì indagato, ma per i reati di associazione per delinquere (art. 416 cod.pen.), truffa ed estorsione. Non, quindi, per il reato, ben più grave, di “associazione di tipo mafioso” (416bis cod.pen.). Lamenta il discredito derivante dall’averlo collocato in un’associazione criminale che notoriamente crea un allarme sociale molto maggiore rispetto a quella “semplice”.
Giornalista e quotidiano si difendono invocando la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca per verità putativa. Dimostrano che l’articolo si era limitato a riportare dati e conclusioni forniti dalla Polizia di Stato.
La vicenda si trascina fino in Cassazione. Sorprendentemente la Suprema Corte riconosce che l’articolo è diffamatorio ed esclude la verità putativa, affermando che il diritto di cronaca non può mai basarsi “su fonti privilegiate di informazione”, poiché “ciascun organo di informazione deve verificare la fondatezza della notizia”. Aggiunge che “per gli organi dello Stato sono previste dalla legge precise forme di pubblicità del loro operato, fuori delle quali non esiste alcuna ufficialità riconoscibile”.
La Suprema Corte riconosce che l’aver falsamente attribuito a P.P. il ruolo di aderente ad un’organizzazione mafiosa, è un errore commesso dalla Polizia nell’elaborazione dei dati su cui si è basato il censimento. Ma la responsabilità non è dell’organo statale, bensì del quotidiano che ha pubblicato i risultati del censimento omettendo di verificarne l’esattezza. E’ chiaro che la sentenza non può essere condivisa.
Un censimento condotto dalla Polizia di Stato, avente ad oggetto l’analisi di un fenomeno criminale in un’area geografica, è basato su dati ufficiali, ossia quelli che le Procure della Repubblica raccolgono nelle proprie indagini, nonché sulle decisioni degli organi giudicanti. I dati così raccolti vengono elaborati per poi confluire su carta, tracciando l’organigramma delle organizzazioni criminali. Una mappa di chi comanda, dell’effettivo potere esercitato sul territorio e sulle varie attività che vi si svolgono.
Le informazioni così elaborate dalla Polizia di Stato sono quelle stesse informazioni che, per la loro indiscussa attendibilità, qualsiasi giornalista ha il diritto di apprendere e utilizzare. Il giornalista ha appreso dalla Polizia di Stato (e poi diffuso) i risultati del censimento con la stessa legittimità con cui apprende (e poi diffonde) le notizie comunicategli ufficialmente dalla Procura della Repubblica e dagli organi giudicanti. Non si vede, quindi, per quale motivo la Polizia di Stato non debba qui essere considerata una fonte ufficiale.
La sentenza si basa su una contraddizione. Da un lato non dubita che i dati raccolti dalla Polizia e utilizzati per il censimento provengano da fonti ufficiali, depositarie di notizie “vere”. Dall’altro dubita della veridicità di quegli stessi dati solo perché non sono stati diffusi in quelle “precise forme di pubblicità” che la legge prevede per gli organi dello Stato.
Non è chiaro a cosa alluda la Suprema Corte quando parla di “precise forme di pubblicità”. Se si riferisce alla convocazione di conferenze stampa, è chiaro che questo è solo uno tra gli strumenti che un organo dello Stato può adottare nel rendere pubblica una notizia. Per il resto, gli unici obblighi cui l’organo dello Stato deve sottostare sono quelli (temporali e ben definiti) derivanti dal divieto di pubblicazione, totale o parziale, degli atti di un procedimento penale, secondo quanto prescritto dall’art. 114 del codice di procedura penale, che però non si riferisce al caso in questione.
La mancanza di “ufficialità” non può ricavarsi dal fatto che i risultati del censimento sono stati consegnati da un singolo agente di Polizia, come se quei risultati fossero paragonabili alla notizia che il giornalista apprende “per vie traverse”. Una cosa è la confidenza fatta a voce dal singolo funzionario al di fuori di un contesto di ufficialità, altro è la consegna di un documento riferibile a un organo dello Stato, basato su dati ufficiali e frutto di un lavoro di equipe. Ciò che rende utilizzabile una notizia è la sua provenienza da un organo ufficiale, non le modalità con le quali giunge all’organo di informazione. La “confidenza” fatta al giornalista dal singolo funzionario di Polizia non può ritenersi ufficiale semplicemente perché il funzionario non può in quel momento considerarsi un organo “ufficiale”.
Se le informazioni su cui si è basato il censimento provenivano proprio da quelle fonti che la giurisprudenza considera il più solido fondamento del diritto di cronaca, allora sorge spontanea una domanda. Quale sarebbe stata la fonte sovraordinata presso cui il giornalista avrebbe dovuto verificare la fondatezza dei dati utilizzati dalla Polizia?
La sentenza non lo spiega.