LA VERITA' PUTATIVA

Quello del giornalista che inventa una notizia e la diffonde al solo scopo di screditare una persona è un esempio più teorico che pratico. Nella realtà, il giornalista che si imbatte in una notizia di apprezzabile interesse, avverte il conflitto tra due opposte esigenze: informare il pubblico quanto prima, verificare la fondatezza della notizia. Il corretto esercizio del diritto di cronaca dipende dal modo in cui il giornalista risolve questo conflitto.

Il controllo sulla fondatezza della notizia è la prima regola che il buon giornalista deve osservare, per non rischiare di diffondere notizie false e lesive dell’altrui reputazione. Il controllo consisterà nella verifica dell’attendibilità della fonte e nella ricerca di elementi che confermino la notizia. Naturalmente più la fonte sarà autorevole, minore sarà il bisogno di verificarne l’attendibilità e di cercare riscontri.

Ma può accadere che il giornalista, nonostante abbia condotto un serio e attento lavoro di verifica, pubblichi una notizia (potenzialmente diffamatoria) che in seguito si rivela falsa. Ci si chiede se in questo caso debba essere ritenuto responsabile della conseguente diffamazione.

Ebbene, fino ai primi anni ‘80 in giurisprudenza è prevalso l’orientamento che riconosceva la scriminante del diritto di cronaca solo se basata sulla verità “oggettiva” dei fatti narrati. A nulla rilevava la buona fede del giornalista, la prova di aver svolto un serio e diligente lavoro di ricerca nell’accertamento della verità. Ciò in aperto contrasto con quanto veniva sempre deciso, ad esempio, per un’altra figura scriminante: la legittima difesa. Qui la giurisprudenza aveva sempre dato ampio risalto alla buona fede. Molti ricorderanno l’assoluzione con cui si concluse il “caso Re Cecconi”, il noto calciatore della Lazio ucciso a Roma nel 1977 da un gioielliere che in buona fede aveva scambiato l’amico burlone per un rapinatore.

In base a quel vecchio orientamento, il giornalista che faceva precedere la diffusione di una notizia oggettivamente diffamatoria da un attento lavoro di verifica, veniva ugualmente condannato se in seguito il fatto si rivelava falso.

La svolta arriva nel 1983, quando la Corte di Cassazione a Sezioni Unite afferma che non può essere punito per diffamazione il giornalista che erroneamente pubblichi una notizia non vera, se l’errore è scusabile per essere stata la diffusione della notizia preceduta da un serio e diligente lavoro di verifica. Viene introdotto il concetto di verità “putativa”, che attribuisce rilevanza alla buona fede del giornalista (il quale “crede” che la notizia diffusa sia vera) e mantiene la sua condotta nei limiti del diritto di cronaca.

Con l’introduzione del concetto di verità putativa la questione del diritto di cronaca conosce una svolta epocale. Esso, cioè, non viene più considerato dal punto di vista del risultato, ma da quello dell’attività espletata per conseguirlo. Non si guarda più alla verità, ma al metodo seguito per il suo accertamento.

Da allora ha acquisito particolare importanza il concetto di fonte ufficiale, che è frutto di una finzione di verità. In genere le fonti ufficiali si identificano con gli organi statali: si pensi ai fatti accertati nelle sentenze dei giudici, alle notizie fornite dai Carabinieri o dalla Polizia durante una conferenza stampa, ai comunicati emessi dalle Autorità sanitarie circa gli esiti dei controlli sugli alimenti, agli accertamenti effettuati da una Autority, etc. Ciò che viene tratto da una fonte ufficiale è vero per antonomasia e non necessita di verifica. L’ufficialità della fonte sostituisce il controllo sulla fondatezza della notizia. La fonte ufficiale conferisce al fatto una sorta di certificazione di autenticità. E la notizia acquisita da una fonte ufficiale senza alcuna verifica, ma in seguito rivelatasi falsa, costituisce sempre verità putativa. Del resto, qui obbligare il giornalista a verificare la notizia proveniente da una fonte ufficiale significherebbe togliere credibilità allo Stato stesso.

E’ chiaro che l’introduzione del concetto di verità putativa rappresenta una conquista di civiltà. Una concezione del diritto di cronaca svincolata da quel criterio finirebbe per compromettere la stessa libertà di informazione. Non solo per il comprensibile timore che accompagnerebbe il giornalista nella redazione del pezzo. Un sistema che non perdonasse gli errori incolpevoli del giornalista, lo spingerebbe a rinunciare al proprio lavoro attivo di ricerca della verità per affidarsi passivamente solo alle notizie provenienti da organi del Potere costituito, mai oggetto di (auto)smentita. Le “veline” di regime garantiscono sonni tranquilli a chi le riporta fedelmente, ma è la collettività a pagare un prezzo altissimo in termini di genuinità, libertà e pluralismo dell’informazione.

Una considerazione va fatta sul concetto di fonte ufficiale. Come già detto, esso rappresenta una finzione di verità della notizia; e dispensa il giornalista dal verificarne la fondatezza. Ma un lavoro di ricerca particolarmente serio e diligente può arrivare a confutare quanto indicato in una fonte ufficiale? E in caso di lesione alla reputazione derivante dalla diffusione di una notizia in contrasto con il contenuto di una fonte ufficiale, il giornalista sarà responsabile anche in presenza di un attento lavoro di ricerca della verità?

Innanzitutto va tenuto presente che dall’efficacia di una fonte ufficiale consegue non che il giornalista deve rifarsi ad essa, ma soltanto che riportando quanto da essa riferito non può mai incorrere in responsabilità per aver diffuso una notizia poi rivelatasi falsa. Logicamente, deve poter diffondere la verità anche quando risulti difforme da quella risultante dalla fonte ufficiale.

Inoltre, la risposta positiva può derivare tenendo presente il meccanismo giuridico che regola i provvedimenti giurisdizionali. La sentenza è la fonte ufficiale per antonomasia, perché rappresenta la conclusione di un complesso procedimento volto all’accertamento della verità. Un fatto contenuto in una sentenza è incontrovertibile, una volta esauriti i mezzi ordinari di impugnazione (appello e ricorso in Cassazione), ossia quando la sentenza passa in giudicato. In questo caso nel linguaggio giuridico si dice che la sentenza “fa stato”.

Ma è possibile mettere in discussione quanto statuito in una sentenza, sia civile che penale, anche se passata in giudicato, attraverso un particolare mezzo di impugnazione: la revisione. Per quel che qui importa, i casi principali in cui può chiedersi la revisione di una sentenza definitiva sono la sopravvenienza di nuove prove e la scoperta della falsità degli atti o delle prove su cui la sentenza si è basata.

Ciò dimostra che quanto statuito in una sentenza, fonte ufficiale per antonomasia, non costituisce mai verità assoluta, e che i fatti in essa accertati non sono mai incontrovertibili. Pertanto, il giornalista potrà avviare, in nome di un’informazione obiettiva, un’attività di ricerca volta a confutare i fatti contenuti in una fonte ufficiale. E’ chiaro che, in questo caso, il lavoro di ricerca del giornalista dovrà essere particolarmente meticoloso.

Si tratta di un’attività che può rientrare nel concetto di giornalismo di inchiesta. Qui il giornalista ricerca attivamente la verità ponendosi in relazione diretta con il fatto, anziché acquisirlo o ricostruirlo passivamente basandosi su fonti ufficiali. A volte il risultato del suo lavoro può contraddire il contenuto delle fonti ufficiali. Nell’eventualità in cui la nuova ricostruzione dei fatti sia lesiva della reputazione di qualcuno, il giornalista non potrà essere considerato responsabile se il suo lavoro viene giudicato diligente al punto da poter contraddire il contenuto di una fonte ufficiale. In effetti, sarebbe paradossale condannarlo per aver rimediato, attraverso una libera attività di ricerca della verità, agli errori di chi per legge ha l’obbligo di accertarla.

Se la ricerca attiva, ma particolarmente accurata, della verità va sempre incoraggiata, i risultati di una ricerca passiva possono essere incondizionatamente ritenuti validi solo quando poggino su fonti ufficiali. Non può essere, cioè, riconosciuta la verità putativa quando i fatti divulgati siano stati appresi da un mezzo di informazione, per quanto autorevole possa essere. E’ il caso dei giornalisti che pubblicano una notizia appena appresa dalla Rai o da un’agenzia di stampa come l’Ansa, ritenendola vera in considerazione dell’autorevolezza della fonte.

Nell’acquisire la notizia, un mezzo di informazione non può affidarsi ad altro mezzo di informazione, per quanto prestigioso sia. Autorevolezza di un mezzo di informazione non significa ufficialità. Qui l’impossibilità di riconoscere la verità putativa deriva dalla differente funzione svolta dalla fonte ufficiale da un lato, e dal mezzo di informazione dall’altro. La fonte ufficiale, aderendo alla realtà, in sostanza crea il fatto. Il mezzo di informazione, invece, crea la notizia. Di conseguenza, la verità putativa qui non potrebbe mai essere invocata, perché si riferirebbe non al fatto in sé, ma alla notizia.

Inoltre, legittimando un simile comportamento si favorirebbe “quantomeno” il sorgere di una gerarchia dei mezzi di informazione. Si incoraggerebbe, cioè, il media di grado “inferiore” ad appiattirsi sulle informazioni rese dal media di grado “superiore”, nella sicurezza del primo che un eventuale errore non avrebbe conseguenze in quanto indotto dal secondo. E’ un’idea che metterebbe a repentaglio lo stesso concetto di pluralismo dei mezzi di informazione. Questo, infatti, è garantito non solo dalla indipendenza dei mezzi di informazione dai pubblici poteri, ma anche dalla totale autonomia tra i mezzi di informazione stessi. Non gioverebbe alla collettività, oltre che alla dignità dello stesso giornalista, spingere quest’ultimo a rinunciare al rapporto diretto con il fatto notizia e a ricorrere alla mediazione di altri organi di informazione nella ricerca della verità.

Si è evidenziato “quantomeno” perché in realtà il rischio è ben maggiore. Riconoscere la verità putativa al giornalista che riprendesse una notizia da un sia pur autorevole organo di informazione, porterebbe in sostanza ad attribuire ad esso la natura di fonte ufficiale. E se si considera che il concetto di fonte ufficiale implica necessariamente la totale identificazione della fonte stessa con l’apparato dello Stato, trattare un organo di informazione alla stregua di fonte ufficiale significherebbe accogliere una concezione da regime: il mezzo di informazione come organo dei pubblici poteri. Proprio l’esatto contrario di ciò che avviene in una democrazia.

Non va dimenticato che la funzione del giornalista è quella di apprendere un fatto dall’interno della società civile per restituirlo alla collettività sotto forma di notizia. Se il giornalista pubblica ad occhi chiusi una notizia appresa da un soggetto avente la sua stessa funzione, rinuncia non soltanto alla ricerca della verità, ma alla stessa funzione sociale di fare informazione.

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