Il politico killer
Nella notte del 30 marzo 1993 viene arrestato a Napoli l’avv. E.P., consigliere comunale, con l’accusa di corruzione. Avrebbe promesso a P.N., persona vicina ad ambienti camorristici, l’assunzione presso il comune partenopeo di trenta persone, in cambio di otto milioni per ciascuna assunzione. L’accusa si basa su dichiarazioni dello stesso P.N., il quale svela un quadro poco edificante. Afferma che E.P. gli avrebbe chiesto di far uccidere l’assessore alla regione Campania C.A., sua collega di partito ma scomoda concorrente. Il delitto non si sarebbe verificato a causa dell’eccessivo compenso richiesto dal killer.
Tra il 30 marzo e il 4 aprile dello stesso anno, il quotidiano “L.” pubblica una serie di articoli che trattano dell’arresto di E.P. per corruzione, ma che danno ampio risalto alle dichiarazioni del pentito P.N. sulla richiesta di E.P. di far uccidere l’assessore. “Un amministratore liberale ordinò ai clan di far uccidere A.C. perché di ostacolo alla scalata al vertice del partito. L’inchiesta sul business delle discariche chiama in causa E.P.”, si legge in uno di essi. Con sottotitolo: “Parla un pentito: dieci anni di misfatti compreso l’omicidio”. In un altro: “Secondo gli inquirenti è stato il consigliere comunale a chiedere al padrino di far fuori la liberale C.A.”. E.P., la cui storia viene sintetizzata in un eloquente "da politico rampante a killer fallito", viene poi descritto come una persona “telefonino cellulare alla mano ma solo per darsi un tono. E nei piccoli occhi sfuggenti l’incubo dei creditori”; e come chi “credeva di essere già assessore, di aver conquistato finalmente un’auto blu e un telefonino cellulare con la bolletta a carico dell’amministrazione comunale”.
L’avv. E.P., che a causa di tali articoli è stato nel frattempo sospeso dalla carica di consigliere comunale e dall’Ordine degli Avvocati di Napoli, cita in giudizio il quotidiano ritenendo tali articoli altamente diffamatori. Il Tribunale di Napoli riconosce la lesione alla reputazione. In particolare, ritiene falsa la circostanza riportata sul quotidiano che “secondo gli inquirenti è stato il consigliere comunale a chiedere al padrino di far fuori la liberale C.A.”, poiché erano soltanto affermazioni del pentito P.N. e “tale specifica accusa non venne mai formalizzata in alcuna imputazione”. Infine, ritiene denigratorio il modo in cui E.P. è stato “dipinto” dal quotidiano, con quei riferimenti a cellulare, auto blu e creditori.
Non c’è dubbio che gli articoli in questione abbiano consegnato ai lettori un’immagine di E.P. assolutamente incompatibile con l’incarico pubblico da lui ricoperto, ponendo l’accento anche su particolari che hanno ben poco a che vedere con la vicenda giudiziaria. Ne viene fuori un individuo che fa uso dei pubblici poteri per scopi futili ed esclusivamente personali. E’ probabilmente questo l’aspetto che ha indotto il tribunale a propendere per la lesione della reputazione. Ma i termini adoperati per colorire il personaggio appartengono più alla problematica del diritto di critica, che non a quella del diritto di cronaca.
Ciò che qui importa è che il tribunale ha escluso la sussistenza del diritto di cronaca anche per il difetto di verità dei fatti narrati. In particolare, il tribunale ha ritenuto violasse l’obbligo di verità il seguente passo: “Secondo gli inquirenti è stato il consigliere comunale a chiedere al padrino di far fuori la liberale C.A.”, sul presupposto che l’avere E.P. tentato di organizzare l’omicidio della rivale non era una convinzione degli inquirenti, ma l’oggetto delle dichiarazioni di un pentito; e che tale accusa non era mai stata formalmente contestata ad E.P. dagli organi inquirenti.
Sotto quest’ultimo aspetto la sentenza non è condivisibile, poiché si fonda su un duplice errore. In primo luogo, opera una incomprensibile dissociazione tra dichiarazioni di terzi e convinzione degli organi inquirenti. Le dichiarazioni di terzi, quando contengano elementi interessanti, vengono inevitabilmente raccolte in quei documenti ufficiali (rapporti di polizia, interrogatori del pm, etc.) che costituiscono la piattaforma su cui poggia l’ipotesi accusatoria che verrà formulata dal pm al termine delle indagini preliminari. La raccolta di dichiarazioni durante le indagini preliminari è quindi esplicazione di un ruolo istituzionale (l’obbligo dell’azione penale) che la legge assegna agli organi inquirenti. Di conseguenza, non ha alcun senso distinguere tra fatti che confluiscono in documenti ufficiali tramite l’operato degli organi inquirenti, e come questi valutino i fatti così aquisiti. Questi fatti acquistano “ufficialità” per il solo fatto di confluire in quei documenti. Ovviamente, si tratta di una “ufficialità” che tiene conto della particolarità della fase procedimentale di riferimento (tutt’altro che avanzata). Ma per un corretto esercizio del diritto di cronaca non è certo necessario (anche perché sarebbe illogico) dimostrare che gli inquirenti credono intimamente alle dichiarazioni a loro rese da terzi e riportate in documenti ufficiali.
In secondo luogo, non è condivisibile l’argomentazione secondo cui l’accusa rivolta dal pentito ad E.B., in merito all’organizzazione dell’omicidio dell’assessore A.C., non è mai stata formalizzata in imputazione. Evidentemente il tribunale non ha voluto tener conto del fatto che una simile accusa non avrebbe mai potuto essere oggetto di richiesta di rinvio a giudizio da parte del pm. A parte i rari casi dei più gravi delitti contro lo Stato, l’ordinamento non considera reato il mero accordo per commettere un delitto, se all’accordo non seguono fatti materiali riconducibili quantomeno alla figura del delitto tentato. Non è stata formulata alcuna imputazione semplicemente perché il fatto non è previsto come reato dalla legge. E’ però legittimo esercizio del diritto di cronaca pubblicarne la notizia, una volta che la si è appresa da fonti ufficiali.