Il 'caso Vitalone'
Il 21.01.1980 sul periodico “La D.” viene pubblicato un articolo dal titolo “Ho tutte le prove, le darò al Senato” che riportata un’intervista al senatore Vitalone. In essa il senatore afferma che nel corso di una perquisizione sono stati rinvenuti documenti che comproverebbero i legami tra alcune organizzazioni eversive e sei magistrati romani, di cui cita nome e cognome. Il senatore precisa di aver già riferito la circostanza in apposita interpellanza parlamentare.
I sei magistrati citano in giudizio dinanzi al tribunale di Roma il senatore, l’articolista, il direttore responsabile e l’editore, ritenendo quelle affermazioni gravemente lesive della propria reputazione. Il tribunale li condanna al risarcimento dei danni. Ma dichiara improponibile la domanda nei confronti del senatore Vitalone: riferendosi l’intervista ad una interrogazione parlamentare presentata dallo stesso senatore, il tribunale ne riconduce il contenuto all’art. 68 Cost., secondo cui “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Sentenza confermata in appello. Articolista, direttore ed editore ricorrono in Cassazione.
La Suprema Corte conferma la sentenza della Corte d’Appello di Roma. Secondo i giudici, la causa di non punibilità prevista all’art. 68 Cost. riguarda “gli atti tipici del singolo parlamentare”, e come tale “non tocca l’oggettiva illiceità dell’atto”. Permanendo l’obbligo del giornalista di accertare la verità della notizia, “sussiste la responsabilità civile dei terzi estranei che abbiano concorso con il parlamentare nel diffondere, a mezzo della stampa, il contenuto degli indicati atti che sia lesivo della altrui reputazione”.
Per la Suprema Corte la speciale causa di non punibilità prevista all’art. 68 Cost. è un privilegio di cui gode il solo parlamentare, estendibile fino a ricomprendere dichiarazioni da lui rese in qualunque sede ma riconducibili all’esercizio delle proprie funzioni.
Che l’art. 68 Cost. sia riferibile soltanto a un membro del Parlamento è indubbio. In linea teorica è pure condivisibile che il giornalista non possa invocare per sé la tutela contenuta nell’art. 68 Cost. per il solo fatto che un senatore abbia reso in un’intervista dichiarazioni riconducibili a quanto espletato in qualità di parlamentare.
Tuttavia, appare chiaro che quanto legittimato dalla sentenza produce effetti paradossali. Viene premiato chi si serve del giornalista, magari in mala fede, per portare attacchi mirati facendosi scudo delle proprie prerogative costituzionali; e si condanna, invece, chi in buona fede dà credito ad una fonte autorevole, come certamente va considerato un membro del Parlamento, nella convinzione di adempiere a un dovere di informazione che è lo stesso parlamentare a stimolare.
Un orientamento, espresso nel caso in questione dalla Suprema Corte, destinato tuttavia ad essere abbandonato.